venerdì 31 agosto 2012

Impressioni fulminanti | Post Office, di Charles Bukowski

Charles Bukowski Post Office
Il vecchio sporcaccione.
Di Bukowski avevo già fatto esperienza con Donne.
Post Office mi è sembrato più maturo, se non altro sembra avere dei binari su cui procedere. Si tratta di un'opera semi-autobiografica (l'alter ego, Henry Chinaski, non suona tanto distante da Charles Bukowski), ovviamente in prima persona, con una progressione molto lineare, una prosa asciutta e un ritmo vivace. Il tempo è scandito da eventi di vita praticamente riassunti - si passa da un giorno all'altro e gli eventi sono raccontati e commentati attraverso il linguaggio colorito che dà la particolare tonalità "decadente" alla storia.
Bukowski è forte.
A suo favore c'è la facilità di rappresentarsi gli episodi che racconta. Si svolgono in poche righe, senza tanti melodrammi strutturati, quindi non si fa fatica a seguire la storia. Sembra un amico che ti racconta un fatterello.
In aggiunta, la vita sregolata del personaggio è interessante, sia le sbronze che le donne, soprattutto perché il tutto è farcito da un umorismo molto semplice.
Non ho apprezzato l'eccessiva leggerezza in alcuni momenti in cui magari era necessario un minimo di pathos. Inoltre, per quanto semplice e veloce, la lettura può farsi talvolta noiosa proprio a causa dello stile, che in certi punti potrebbe invece aver bisogno di un focus particolare. Ma tutto sommato è "giusto" così com'è.
Peccato che il finale è pessimo.
Ad ogni modo, l'esperienza Bukowski è un tipo di esperienza che consiglio a tutti.

sabato 18 agosto 2012

Impressioni | Survivor, di Chuck Palahniuk

survivor chuck palahniuk recensioneQuando in una recensione si legge che la tal opera è uno spaccato della vita odierna / una satira della società / il paradosso della modernità / altre amenità, è probabile che ci si trovi nel Circolo Radical Chic della Vera Letteratura.
Vade retro!
La premessa è doverosa, perché i prodotti di Palahniuk raramente sono “semplici” storie, e
Survivor contiene notevoli riferimenti ai controsensi della vita, ai paradossi, e per la maggior parte delle volte, Palahniuk è la voce delle minoranze.
In Survivor il protagonista è un membro della chiesa Creedish, uno di quei culti utopici come gli Amish, che dopo essere stato indottrinato durante la prima infanzia viene mandato nel mondo esterno, per lavorare nelle case dei ricchi. Tuttavia la sua comunità risponde alla chiamata del Signore con un suicidio di massa, ma lui, Tender Branson, viene assistito e salvato da un apposito nucleo del governo, che gli impedisce di togliersi la vita; così diviene uno dei sopravvissuti, finché non diventerà proprio l'ultimo del suo culto. O quasi.
Il romanzo è narrato in prima persona, il protagonista registra tutto via microfono alla scatola nera dell'aereo che ha dirottato.
È un espediente narrativo che mi piace.
Poi si sa com'è Palahniuk, ha il suo modello tecnico di riferimento (Squadra che vince non si cambia). Usa i cori, usa le descrizioni on-the-body, e la sua amata narrazione non lineare, la Big O. Inoltre porta al lettore informazioni in un modo che non si può affatto definire infodump, anzi.
Il protagonista è stato istruito in Economia Domestica, e riversa un sacco di informazioni che rispecchiano bene la sua personalità. Quindi: “infodump” come bagaglio cognitivo del personaggio, come elemento caratterizzante. A maggior ragione, si tratta di informazioni inutili per il proseguimento della storia (ergo: niente scappatoia misera per dare al lettore informazioni essenziali per comprendere gli eventi), ma dal tono inquietante necessario per determinare l'atmosfera che va delineando. Esempio:

Chiedetemi qual è il modo più veloce per tappare fori di proiettile nelle pareti di un soggiorno. La risposta è pasta dentifricia. Per grossi calibri, miscelate una egual quantità di amido e sale.

Oppure:

Chiedetemi come mandar via una macchia di sangue da una pelliccia.
No, dico davvero, coraggio.
Chiedetemelo.
Il segreto sta nella farina e nello spazzolare la pelliccia contropelo. La parte difficile è tenere la bocca chiusa.

E potrei riportare altri brani riguardanti il periodo di cleptomania del protagonista, nonché le relative tattiche per rubare in maniera diversa, ma non lo faccio, sennò chi legge andrà ad applicare tali tecniche e mi si denuncia. Leggete Survivor, denunciate Palahniuk.
Per il resto, Palahniuk sa non annoiare. Qualcuno può non gradire il suo stile, certo, ma di fatto Survivor – come forse tutte le opere di Palahniuk – contiene il thriller, il surreale, la critica, il macabro, dei contenuti originali, qualche plot twist, e un ritmo sostenuto, con frasi chiare e concise.
Ok, lo ammetto, Palahniuk per me è diventato un'ossessione. Ma nei periodi di lettura sottotono, quelle letture che comunicano a malapena la storia – senza il coinvolgimento voluto –, leggere Palahniuk significa immergersi nella vita: lui è in grado di dare alle cose comuni un significato forte, denso, così che quando lo si legge non si apprezza solo la lettura in sé, ma si guarda il mondo sotto un altro punto di vista.

mercoledì 8 agosto 2012

Impressioni | Assassinio sull'Orient Express, di Agatha Christie

Assassinio sull'orient express agatha christieIl classico del giallo.
Sto passando un periodo di letture "mirate" sugli argomenti che più mi interessano - soprattutto da un punto di vista "macronarrativo" - ed era da tanto che volevo godermi un giallo.
Giallo, crime novel. Si tratta di un genere particolare, con regole proprie - o almeno così sapevo, ma poi ho avuto qualche dubbio.
Assassinio sull'Orient Express è grosso modo una novella (ho contato circa 55k parole; sì, proprio così, le ho contate una ad una!).
Sebbene abbia voluto leggerlo per approfondire la mia infarinatura coi meccanismi del giallo, e dato che è passato un bel po' dagli ultimi gialli che ho letto, mi ha un po' disorientato l'assenza di una vera "strategia" narrativa.

Il principale difetto dell'opera, a mio avviso, è il numero dei personaggi e il loro ruolo. Dato che il lettore deve poter essere in grado di risolvere il mistero, scoprire l'assassino ecc., portare all'attenzione 12 personaggi, ognuno con un ruolo da esaminare (in poche pagine, e in un breve tempo, poi), porta anche tanta confusione.
L'unico modo per tentare di indovinare sarebbe leggere con grandissima attenzione e prendere appunti.
Inoltre, mi risulta che sia meschino creare un colpo di scena basandosi sul non detto, e analogamente per un giallo, il lettore deve avere a disposizione tutti gli elementi per poter risolvere il caso. In Orient Express Poirot svela le sue conclusioni basandosi su informazioni non fornite al lettore (non posso riportarle qui, sennò vi rovino il bello), o comunque assai difficili da intuire senza altre conoscenze pregresse.
Altro elemento "scomodo" (secondo me), l'ambientazione. Si tratta di un treno, e dovrebbe essere delle più semplici da descrivere (cuccette una di seguito all'altra su un solo lato), ma dalla narrazione non mi risulta di aver capito bene la struttura (perché non si parla di un InterCity) se non verso la fine, quando ormai il caso si sta per risolvere.
Dal punto di vista stilistico, la Christie usa POV ballerini a dir poco superflui, e sebbene il ritmo sia abbastanza alto e i periodi concisi, ogni tanto usa tell generici, del tipo di inferenze sugli stati emotivi altrui - in un certo modo li sfrutta per forzare la direzione della storia (per esempio, alcuni personaggi parlano con "tono sincero", e così facendo la Christie obbliga il lettore a crederle, a prescindere che quello che dice sia la verità o una menzogna, giacché un POV di riferimento non esiste).
Tutto sommato, direi che per godere appieno dell'opera sarebbe necessario leggerla in una sola seduta, se possibile, e con grande attenzione. La Christie non è particolarmente abile nel catturare il lettore (Poirot è un personaggio insopportabile, e se lo avessi davanti lo prenderei a ceffoni), sebbene un paio di volte sia stata in grado di strapparmi un sorriso, anche se a modo suo (coi pov ballerini, per esempio in un momento narrativo unicamente for teh lulz).
Gli darei la sufficienza ma oserei dire che, sul versante giallo, Conan Doyle abbia la meglio.

mercoledì 1 agosto 2012

Scelta del corso di laurea, università: la mia esperienza triennale in Psicologia

Tra i lettori del blog ci sono diversi under 20, e dando un'occhiata ai referer noto che diversi utenti capitano sul Rifugio perché in cerca di informazioni precise (e stranamente arrivano qui, lol).
La mia esperienza con il corso di laurea triennale è giunta al termine e che vi piaccia o no, ho voglia di condividere alcuni pensieri.

Primo pensiero - "esistenziale". Perché andare all'università?
Ti conviene andare all'università se hai interesse nella materia scelta (fondamentale), voglia di apprendere, impegno nello studio. La possibilità economica viene dopo (esistono borse di studio e altri sussidi non così impossibili da ottenere). No, sul serio: avere la grana è importante ma fino a un certo punto.
Non ti conviene se non hai nulla di tutto ciò, a partire dall'interesse, e se la scelta dell'università è solo una costrizione dei genitori o una scelta fatta per noia o perché così fan tutti.

C'è un sacco di gente volonterosa, in giro, che non ha avuto o non ha la possibilità di studiare: nel riconoscimento e nel rispetto di questa opportunità, sarebbe stupido intraprendere un corso di studio senza avere interesse, impegno e voglia di apprendere.
Escludendo particolari casi (per esempio, per motivi complessi o per mancanza di alternative), molti ragazzi diplomati sono liberamente indipendenti nelle loro scelte e hanno alle spalle genitori in grado di sostenere le spese per gli studi. Ma non è obbligatorio: andare all'università o intraprendere una professione - per quanto umile - hanno la stessa dignità (c'è la credenza sbagliata che chi è laureato può guadagnare di più, quando in realtà molti ingegneri con la triennale guadagnano meno di chi lavora in un call center, per dire).
E anche i corsi di laurea, checché se ne dica, hanno tutti la stessa dignità. Più o meno.

Il primo anno di università, comunque, una grossa fetta di studenti "sperimenta" la materia, capisce un po' l'andazzo, le prospettive, si fa qualche domanda e finisce per cambiare facoltà. Ad alcuni capita il primo anno, ad altri al secondo, ad altri il terzo.... Ma succede.
Il mio consiglio su come scegliere il corso di studi è, prima di tutto, informarsi su tutti i corsi che riguardano i propri maggiori interessi, e restringere il campo verso l'interesse più importante di tutti.
Certo, alcuni corsi di laurea non danno sbocco a nessuna possibilità di lavoro apparente, ma è anche vero che molti laureati, se trovano lavoro, fanno cose molto diverse rispetto a quanto studiavano (o pensavano di fare). E ci sono lavori che addirittura non necessitano di particolari lauree (in ambito aziendale, per esempio, ci sono diversi impiegati che hanno maturato la propria formazione sul campo, riuscendo a raggiungere alti traguardi: la laurea quindi non garantiscenecessariamente ciò che si crede).
Lasciando poi perdere le classifiche inaffidabili (specchietti per le allodole, principalmente) pubblicate su riviste o giornali, se bisogna scegliere l'ateneo, consiglio di consultare - attraverso i relativi siti web - le guide ufficiali dello studente. Leggendo i programmi degli esami, si può avere un'idea di come viene affrontata la disciplina da quell'ateneo (a parte alcune, molte facoltà presentano esami che stesse facoltà di altre regioni non presentano, o argomenti maggiormente o meno trattati, e via discorrendo, quindi non tutti i corsi sono uguali, a dispetto del nome), ma anche la modalità d'esame (alcuni atenei fanno tutto scritto, altri tutto orale, alcuni al computer, ecc.).
Si può condividere, si può non condividere. Non lo so, questo è quello che pensa uno che ci è passato.

E ora veniamo al mio ambito.
Psicologia.
La materia è tra le più affascinanti - ma anche tra le più stuprate.
Il popolino è ambivalente nei suoi confronti, ma è anche confuso: c'è chi è incredibilmente fiducioso nella Psicologia, ma cita esclusivamente Freud; c'è chi crede che non ci sia differenza tra uno psicologo e un santone, e così via.
Quello che posso dirvi, qui, è solo il mio parere.
Molti si iscrivono a Psicologia in base allo studio di Freud in Filosofia al liceo. E molti credono che Psicologia e Filosofia siano più o meno la stessa cosa: niente di più sbagliato.
In base a quanto ho visto, alle persone con cui ho parlato, a ciò che leggo - insomma, in base alla mia esperienza -, sconsiglio di intraprendere un corso di laurea in Psicologia se:
  1. si crede alla magia e a Babbo Natale: la Psicologia non è esoterismo (con tutto il rispetto).
  2. si pensa che le proprie opinioni sulla gente, sulla mente, sui comportamenti abbiano lo stesso valore di paradigmi e modelli teorici specifici e verificati sperimentalmente.
  3. si crede che la Psicologia non sia una scienza.
  4. quattro.
  5. si crede che Psicologia = Filosofia e che quindi si studiano generici "concetti": Psicologia è, tra l'altro, anche Biologia, Genetica, Fisiologia, Matematica [ahimè].
  6. si crede che fare lo psicologo non comporti responsabilità come, per esempio, fare il chirurgo: sbagliatissimo.
  7. si crede che Psicologia = Psicoanalisi. La Psicoanalisi è un modello teorico psicodinamico antico e non preminente. Esistono diversi modelli teorici con maggiori fondamenti empirici.
  8. si crede che studiando Psicologia si possa fare il dottore con la pipa che scrive sul taccuino. La Psicologia Clinica è una disciplina: esistono molti altri campi ugualmente importanti, come la Psicologia dello Sviluppo, la Psicometria, la Psicobiologia, la Psicologia Cognitiva, la Psicologia sociale e delle organizzazioni, la Psicologia del Lavoro, ecc.
  9. si crede che offra più lavoro di altri corsi. No, il campo è saturo da anni.
  10. si è convinti che comunque sia è un percorso di studi breve. Sbagliato. Se si volesse fare lo Psicoterapeuta, per esempio, si dovrebbe conseguire una laurea triennale (3) + una laurea magistrale (2) + 1000 ore di tirocinio + esame di stato per l'abilitazione (1) + una scuola di specializzazione post-lauream in Psicoterapia (4). Totale: 10 anni. Davanti a questa prospettiva, la maggior parte delle persone dice: "A 'sto punto faccio Medicina!".
Credo sia tutto. Ci sarebbe molto altro da dire, ma è meglio fermarsi qui.
Ripeto, sono solo opinioni personali, però ritengo che l'internauta in cerca di informazioni debba sentire più campane.
In bocca al lupo a eventuali matricole.